il controllo parte 2





Aspettava il giorno dell’intervento, il pacemaker andava cambiato. Si sarebbe fatto dare quello vecchio. Ci sarebbe pur stato qualche indizio sulla sua provenienza. Intanto passava le giornate a casa. Faceva il minimo indispensabile. Si sentiva sospeso, senza volontà.

Non andava più a giocare a calcetto, non vedeva più gli amici (conoscenti sarebbe più accurato), non seguiva più le partite, non curava più le sue piante, la sua vera passione. La moglie sembrava timorosa di indagare, provava gentilmente a spronarlo ogni tanto, ma desisteva di fronte al muro che ergeva il marito.

Il giorno dell’intervento la moglie lo accompagnò, lui non parlò per tutto il tragitto, venne preparato in attesa dell’intervento il primo pomeriggio, non aveva paura, non provava nulla. Aspettava solo di avere in mano quel piccolo aggeggio metallico. Si era messo in attesa. Sembrava che nulla succedesse, nessun moto interiore, solo attesa.

L'intervento fila liscio, un nuovo pezzo di metallo è nel suo corpo. Al suo risveglio fa chiamare il medico. Il suo primo pensiero è avere il vecchio pacemaker, non chiede come è andata, non vuole sentire cosa ha da dirgli il medico. Vuole vedere il pacemaker e sapere se si può rintracciare la sua origine.

Il pacemaker era completamente liscio, nessuna marca, nessuna indicazione, per il medico era incredibile che la sua batteria sia durata tanto, visto che il paziente era convinto di non aver mai fatto interventi negli ultimi 10 anni.

Nei giorni successivi il vecchio pacemaker sarebbe stato sempre in tasca a D. la sua mano lo accarezzava in ogni momento, come a pregare l’oggetto a svelare i propri segreti. La notte, nei giorni di riabilitazione che passava a casa, tra una ricerca e l’altra sui pacemakers, o su eventuali parenti lontani, chiunque, potesse aiutarlo a ricostruire i pezzi mancanti della sua vita. Prima di dormire metteva giù gli appunti e le strategie per il giorno dopo. Una mattina al risveglio, si era addormentato alla scrivania davanti al taccuino, prende in mano i suoi appunti e vede scritto “mi dispiace”.

Era la sua calligrafia, poco sotto gli ultimi appunti scritti prima di crollare, era sicuro di non avere scritto quelle parole. Stava forse perdendo il senno? Non era da escludere, ma cosa voleva dire “mi dispiace”?

Era sconvolto, non sapeva che pensare, era proprio la sua calligrafia non poteva pensare fosse stata la moglie o qualche figlio. Dio che succedeva? Si rese conto che non pregava da tempo, non gli era neanche mai passato per la testa, lui cattolico convinto. Tutto ciò era forse una punizione divina?

Decise di riprovare, la sera stessa, si coricò sul divano -non dormiva nel letto con la moglie da un po’- il taccuino appoggiato sul suo petto, la penna in mano. Gli pareva assurda come cosa, ma qualcosa lo teneva al riparo dal sentirsi ridicolo. Sul taccuino prima di dormire, scrisse solo “chi sei?”

La mattina dopo si vegliò di soprassalto e controllò il taccuino.

Nulla.

Ma qualcosa successe di nuovo dopo qualche giorno. Giorni passati come in uno stato di trance, in sospensione. Una mattina nel taccuino trovò un messaggio più lungo.

La sua mano aveva scritto “so che non dovrei contattarti, ma devi sapere la verità, puoi e devi andare avanti”. Quando non ne era sicuro, non guardava il taccuino da qualche giorno. Che fosse totalmente impazzito? Io suo cervello cercava di salvarlo in qualche modo da quello stato catatonico?

Era la sua calligrafia, su quello non aveva dubbi, i figli e la moglie ormai facevano finta che lui non esistesse, non avevano ragioni per cercare di tirarlo su, o farlo impazzire del tutto.

“non è colpa tua” gli scrisse una sera la mano. I colloqui, che era diventati progressivamente più frequenti, era comunque molto brevi, ora la sua mano scriveva anche mentre era sveglio.

Lui la posava sulla scrivania e quella prendeva vita e scriveva, era stupefacente, ma non se ne meravigliava più. Finalmente aveva un segnale concreto che c’era qualcosa che non sapeva, ma era vicino alla verità. O così amava pensare, e quindi non si curava molto della stranezza del fatto che la sua mano comunicava con lui. Avrebbe accettato qualsiasi cosa.

“non punirti, cerca di dimenticare il passato e vai avanti, ora sei davvero tu” questi erano i messaggi che la mano lentamente lasciava sulle pagine del taccuino.

D. chiedeva ad alta voce, o a volte rispondeva sempre scrivendo, non era sicuro di come comunicare. Ma la mano non rispondeva a tutte le risposte. A quasi nessuna a dire il vero. Chi era che comunicava con lui? Come faceva a controllare la sua mano? Cosa sapeva del peacemaker?

Domande senza risposta.

Ma a D. non poteva bastare, decise di non comunicare più con la sua mano, voleva la verità fino in fondo o in alternativa la morte. Era dentro la sua testa, chiunque fosse, sapeva tutto di lui. Se controllava la sua mano voleva dire che sapeva tutto. Era deciso. Pur di liberarsi di quella prigione si sarebbe ammazzato.

Ma quei pensieri, passarono subito, ora era di nuovo tranquillo, senza motivo apparente, tutta la rabbia e la determinazione erano svaniti nel giro di un giorno. Sospettava che anche questo non dipendesse da lui, ma da “loro”, ma non gli fregava molto in questo stato. Guardava la sua mano e sorrideva.

Portava la moglie a fare la spesa, giocava con i figli. Loro, all’inizio con un po’ di sospetto e circospezione, accettarono il suo reinserimento nella loro vita, con cautela, non certi per quanto sarebbe durato.

Ma un giorno, senza preavviso. Era stato in posta a pagare una bolletta, nessun pensiero negativo gli era passato per la testa, il suo umore era normale, sfuggevole, l’umore di chi non si sta chiedendo come sta, con il pilota automatico inserito. Ma fuori dalla poste, al semaforo, quando scattò il rosso, D attraversò la strada, d’istinto ,senza pensarci su, senza avere un piano. Fu investito da un suv metallizzato, sbalzò in là di qualche metro. Sentì le sue ossa spezzarsi, il cervello sballottarsi dentro al cranio, il contatto con il suolo e poi ebbe una visione. Era intrappolato in una tela di ragno, si dimenava, ma più si dimenava e più la tela gli si appiccicava addosso, in alto un ragno gigantesco lo osservava, nei suoi occhi D. percepì incoraggiamento. Era come se il ragno volesse proprio quello, che D. si accorgesse di essere in trappola, che D. provasse a liberarsi, era tutto quello che il ragno voleva, che lui ci provasse. E D. ci provava fino a quando i suoi muscoli bruciavano e il suo cuore batteva all’impazzata. In quel momento si abbandonava alla sconfitta, era una dolce resa, la tela ora era un bozzolo che lo accudiva e lo sorreggeva, esausto.


il controllo continua...

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